SLOW FOOD AL G7: “IL MODELLO DELL’AGRICOLTURA INTENSIVA è FALLITO. PIù BIO E DIVERSITà PER SALVARE I CAMPI”

Quanto vale il cibo che, più o meno tre volte al giorno, mettiamo in tavola? E come viene distribuito il valore di questo cibo? Sono queste le domande che emergono dal decalogo presentato da Slow Food in occasione del G7 Agricoltura che si tiene dal 25 al 29 settembre. Non sono le domande che normalmente figurano al centro dei vertici sul tema. In genere prevale un altro approccio, che si autodefinisce “pragmatico”: la popolazione cresce, i consumi pro capite pure, dunque bisogna concentrarsi sull’aumento della produzione puntando su nuove tecnologie.

“Un ragionamento che non tiene”, obietta Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia. “Già oggi produciamo cibo per 13 miliardi di persone, ne buttiamo un terzo mentre un miliardo di persone non ne ha abbastanza. C’è qualcosa che non va. Ed è il modello di agricoltura nato nel dopoguerra basato sullo spreco e sull’abbattimento del valore del cibo. È vero che questo modello ha permesso per alcuni decenni un forte aumento di produttività: tra il 1959 e il 1985 le rese agricole sono cresciute del 250%. Ma tutto ciò è avvenuto a fronte di un aumento di input energetici - fertilizzanti chimici, pesticidi, trattori – di oltre il 5 mila %. Una sproporzione che ha portato una cascata di effetti negativi”.

Il più evidente è l’impatto sull’ambiente e sulla biodiversità. “Negli ultimi 70 anni abbiamo distrutto i tre quarti delle varietà vegetali coltivate: un patrimonio di agrobiodiversità fondamentale per la resilienza degli ecosistemi e un importante bene culturale, ambientale ed economico”, si legge nel decalogo dello Slow Food. Inoltre agricoltura e allevamento intensivi hanno aumentato l’erosione del terreno e prodotto una quota importante delle emissioni serra che stanno sconvolgendo il clima: il ciclo del cibo è responsabile di circa un terzo del problema.

Ma gli agricoltori hanno almeno ricavato un vantaggio economico da questa forzatura del ciclo produttivo? “È successo il contrario: la chiave della cosiddetta rivoluzione verde del dopoguerra è stata proprio lo spostamento della ricchezza dal settore agricolo a quello industriale, dalla terra ai nuovi mezzi tecnici per lavorarla”, risponde Nappini. “Ma le sembra normale che lavorare i campi non dia un reddito sufficiente e che quindi gli agricoltori debbano vivere di sussidi? È una follia. Il lavoro agricolo vale poco, o pochissimo nel caso dei braccianti illegali ridotti in uno stato di sostanziale schiavitù, perché il valore del cibo viene assorbito quasi interamente dalla lunga catena di distribuzione, marketing, vendita. E perché troviamo che sia scandaloso che i pomodori durante la stagione produttiva costino più di 2 euro al chilo, ma normale che la cioccolata per un ovetto di Pasqua costi quasi 90 euro al chilo”.

In realtà la conversione ecologica offre una soluzione per buona parte dei problemi dell’agricoltura: difende la qualità e la varietà degli alimenti; tutela la fertilità del suolo che si sta perdendo; riduce il dissesto idrogeologico e climatico prodotti da agricoltura e allevamento intensivi. E se i generosi aiuti pubblici dell’Unione Europea non continuassero a premiare il vecchio modello agricolo intensivo il sistema agricolo potrebbe riequilibrarsi anche dal punto di vista economico.

Di qui i 10 punti del decalogo dello Slow Food: 1) Sì alla biodiversità e all’agroecologia; 2) Sì a chi alleva con rispetto per gli animali e per la terra; 3) Sì all’educazione alimentare in tutte le scuole; 4) Sì a diete sane e sostenibili; 5) No alla plastica usa e getta; 6) No allo spreco del cibo; 7) sì alla pesca artigianale e alla tutela degli ecosistemi costieri; 8) Sì a prezzi giusti per gli agricoltori; 9) Sì alla ricerca per una vera sovranità alimentare, no agli Ogm e ai brevetti; 10) Sì alla diversità e all’accoglienza.

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